Festival degli Appetiti - SIMPOSIO DI ARCHITETTURA E ECOLOGIA DELLE RELAZIONI, Montalcino (Siena) 22 -26 luglio 2024
organizzato da Scuola Permanente dell'Abitare in collaborazione con ArtApp
https://www.spda.it/festivaldegliappetiti
Progettare per l’inclusione 22 Luglio
interventi di:
Mara Bragagnolo interior designer
Martina Frattura lighting designer
Franca Marini artista
Alberto Mazzocchi medico
https://www.spda.it/programma/incontri/progettare-per-l'inclusione
intervento di Franca Marini: arte, inclusione e impegno sociale
Il tema centrale di questo incontro è quello dell’inclusione, un tema che negli ultimi decenni ha interessato anche lo sviluppo dell’arte contemporanea e quindi è importante essere qui con voi per confrontarsi con alcune nuove pratiche artistiche e per cercare insieme di capire come possa oggi l’arte entrare a far parte di un processo di trasformazione della realtà in cui viviamo.
Cercherò innanzitutto di tratteggiare quella che possiamo considerare una nuova immagine di artista che si affranca da quella del pittore immerso a lavorare sulla tela poggiata sul cavalletto nella solitudine dello studio.
A partire dagli ultimi due decenni, gli artisti sono sempre più coinvolti in progetti di carattere sociale e politico, in particolare sulla migrazione. Stranieri Ovunque è il titolo della 60° Biennale d’Arte di Venezia, tutt’ora in corso, i cui principali temi sono migrazione, decolonizzazione ma anche marginalità e diversità.
Questa sorta di attivismo artistico spesso si attua attraverso prassi che prevedono la partecipazione del pubblico alla realizzazione e definizione dell’opera e che pongono come centrale le relazioni e non l’oggetto estetico finale. Si tratta di forme di arte relazionale già codificata nel 1998 dal critico e curatore francese Nicolas Bourriaud nel testo Estetica Relazionale.
L’arte relazionale, di cui quella partecipativa è una variante così come le più recenti community based art, socially engaged art ecc., nasce intorno alla metà degli anni ’90 nonostante la prima opera di arte relazionale venga considerata la celebre opera-performance collettiva Legarsi alla Montagna realizzata nel 1981 da Maria Lai con la partecipazione di tutta la comunità di Ulassai (foto 1). [1]
[1] a questo link un breve video della realizzazione dell’opera:
https://www.raicultura.it/arte/articoli/2019/11/Maria-Lai-9aa5a638-a435-41bb-81f5-50fc6002381c.html

1 Legarsi alla Montagna Maria Lai, 1981 Ulassai (Nuoro) foto Piero Berengo Gardin
Sempre in Italia, a Roma nel 1995, si forma il collettivo di artisti e architetti Stalker (dal film capolavoro di Andrej Tarkovskij) tra le cui prime azioni relazionali si ricorda I territori attuali, un’esplorazione a piedi di circa cinque giorni di aree marginali, spazi residuali della capitale. Sarà grazie a una di queste esplorazioni intorno al grande raccordo anulare, Primavera Romana, durata circa tre mesi, che l’antropologo Giorgio de Finis scopre Metropoliz, dove nel 2012 nascerà il MAAM, il Museo dell’Altro e dell’Altrove.
Metropoliz, la città meticcia è una fabbrica dismessa, un ex salumificio, lungo la via Prenestina occupata dal 2009 da gruppi rom, migranti e cittadini italiani attraverso il coordinamento dei Blocchi Precari Metropolitani. Grazie al contributo e solidarietà di centinaia di artisti, al suo interno viene creato quello che forse può considerarsi il primo esempio di museo abitato, con opere video, fotografia, graffiti, scultura ecc., la cui presenza ha di fatto contribuito a impedire lo sfratto degli occupanti, fino al recente accordo con il Comune di Roma che prevede l’acquisto dello stabile e la realizzazione di circa 150 case popolari (foto 2-3).

2 Metropoliz - edificio centrale, foto Giuliano Ottaviani
https://www.artribune.com/attualita/2015/04/la-storia-del-maam-larte-prende-vita-in-uno-strano-museo-a-roma-1/

3 MAAM, Metropoliz – Cortile interno, foto Giuliano Ottaviani
opere: L.U.N.A. di Massimo di Giovanni e Refuge di James Graham
https://www.artribune.com/attualita/2015/04/la-storia-del-maam-larte-prende-vita-in-uno-strano-museo-a-roma-1/
L’artivismo è un neologismo coniato intorno alla fine degli anni ’90 negli USA. Diffusosi ben presto su scala mondiale, il termine connota azioni, interventi di artisti in opposizione agli effetti determinati dalle politiche economiche liberiste (conflitti, migrazione e discriminazione, gentrificazione ed emergenze ambientali). Gli artivisti lavorano a progetti condivisi, come la realizzazione degli orti urbani, dialogano con le comunità, con le associazione di quartiere e con le frange più deboli della società per realizzare un’arte inclusiva che accresca consapevolezza e impegno civico. Per il critico d’arte Vincenzo Trione, autore di Artivismo. Arte, politica, impegno (2022), l’artivismo si è imposto con forza maggiore negli ultimi due decenni. Questo rinnovato impegno politico da parte degli artisti possiamo collocarlo in seno a un movimento più ampio, culturale, economico e filosofico, che si propone di apportare un cambiamento e che è sorto a seguito della crisi economica mondiale agli inizi degli anni 2000.
La filosofia della Condivisione, pur non trattandosi di un sistema filosofico compiuto e definito, propone delle tesi interessanti attraverso analisi condotte anche da economisti, sociologi e antropologi che individuano, nell’aumento degli squilibri sociali che caratterizzano l’inizio del terzo millennio, il fallimento del pensiero neoliberista. Secondo l’economista Raj Patel, uno dei maggiori esperti sulla crisi alimentare mondiale ed esponente di spicco della filosofia della Condivisione, l’homo oeconomicus non corrisponde alla natura umana: “I recenti esperimenti nel campo delle neuroscienze e della primatologia suggeriscono che non siamo calibrati per comportarci sempre in maniera totalmente egoistica (…)” [2].
Al predominio di gruppi economici e finanziari sulle scelte della politica e alla logica del mercato libero, in cui lo scambio non è dettato dai bisogni ma dal profitto, viene contrapposto un modello economico non più basato sulla competitività ma su un principio di condivisione e solidarietà fra gli esseri umani, come asserisce anche il filosofo Roberto Mancini nel suo libro La logica del dono. Meditazioni sulla società che credeva d'essere un mercato (2011): “(…) non più una civiltà del potere verticale e del denaro, ma una civiltà umanizzata, fondata sulla giustizia verso tutti e capace di armonia con il mondo naturale” [3].
L’artivismo s’inserisce di fatto all’interno di reti di resistenza che si sono formate tra individui e gruppi a livello internazionale ma che operano a difesa dell’identità locale dall’omologazione a cui spinge il fenomeno della globalizzazione. Esse si propongono di generare un cambiamento non solo nelle strategie di mercato ma anche nei rapporti tra le persone attraverso la creazione di nuove forme di coesione sociale basate su un principio di condivisione e legate alla sostenibilità dello sviluppo e alla qualità della vita.[4]
[2]Raj Patel. Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, Feltrinelli, Milano 2010, p.36
[3]Roberto Mancini. La logica del dono. Meditazioni sulla società che credeva d'essere un mercato, EMP, Padova, 2011, p.28
[4]vedi: Franca Marini. World Art e attivismo artistico, testo di presentazione del libro "Attacco all’arte. La bellezza negata" di Simona Maggiorelli, Libreria Mondadori, Siena, 24 Giugno 2017 https://www.francamarini.com/it/poetica-artistica-3/431-attacco-all-arte-la-bellezza-negata
La rigenerazione urbana, riqualificazione di aree periferiche e quartieri popolari, è tra i temi cari all’artivismo.
Art Fight Specific, cioè arte come forma di lotta contro la gentrificazione, è un termine coniato all’interno del progetto Isola Art Center creato nella Stecca degli Artigiani agli inizi degli anni 2000 nel quartiere popolare e operaio Isola di Milano.
Molte opere furono realizzate in situ dagli artisti per salvare, come scrive Bert Theis, l’artista lussemburghese ideatore del progetto, gli spazi che si trovavano al centro di un conflitto sociale e politico (foto 4). “In questo conflitto le opere prendono chiaramente posizione in favore della lotta degli abitanti e della trasformazione dal basso contro quella top-down” [5].
Gli spazi che accoglievano le opere degli artisti all’interno di Isola Art Center furono lasciati volutamente grezzi coniando così anche il termine Dirty Cube in opposizione a quello di White Cube, usato per designare le gallerie-vetrina che, insieme a musei e arte pubblica, fanno parte di un preciso programma di gentrificazione. [6]
[5] Bert Theis. Arte, spazio pubblico e trasformazione sociale all’Isola di Milano in “Paesaggio con figura”, a cura di G. Scardi
Umberto Allemandi &C, Torino, 2011, p. 230 ibidem p.33
[6] su questo tema vedi anche: O’Doherty Brian. Inside the White Cube. L’ideologia dello spazio espositivo, Johan & Levi editore, 2012

4 Museo Aerosolar Thomàs Saraceno, 2007, Isola Art Center, Milano, foto Bert Theis
https://zero.eu/it/news/isola-art-and-community-center-arte-contemporanea-e-militanza-nel-vecchio-quartiere-isola/
L’attivismo artistico, non sempre accompagnato da una connotazione politica come negli esempi riportati sopra, è presente anche in molti progetti finanziati da enti pubblici come quelli all’interno delle strutture penitenziarie o rivolti a persone con disabilità. A Palazzo Strozzi a Firenze nel 2011 è nato il programma A più Voci creato per le persone con Alzheimer, condotto da educatori sia museali che geriatrici con la collaborazione di artisti (foto 5).

5 A più voci Palazzo Strozzi, Firenze https://www.palazzostrozzi.org/a-piu-voci/
I precedenti storici di questa nuova figura di artista. Le “azioni” futuriste e dadaiste agli inizi del secolo scorso sono gli antecedenti più noti dell’interventi degli artisti fuori dai contesti istituzionali dell’arte. La creazione di veri e propri nuovi linguaggi espressivi e quindi la rottura con le forme artistiche del passato farà parte del moto di rivolta che caratterizzò gli anni ‘60 e ’70. Attraverso happenings, performance e body art, ma anche video arte e installazioni, gli artisti determinano il coinvolgimento del pubblico e la riformulazione del significato stesso della creazione artistica.
Allan Kaprow con i suoi environments è considerato anche il pioniere dell’installazione, una forma d’arte che avrà un importante sviluppo soprattutto negli anni ’90 e che concepisce l’opera come il luogo dove si stabiliscono le relazioni con il pubblico (foto 6). [7]
[7] vedi: Franca Marini. L’estetica dell’arte contemporanea: dalla libera espressione all’arte sociale. Installazioni artistiche e interattività
relazione in occasione del ciclo di incontri "L’Estetica in Architettura", Summer School 2018, OCRA Montalcino, 23 Luglio 2018
https://www.francamarini.com/it/poetica-artistica-3/439-scuola-permanente-dell-abitare-1

6 Yard Allan Kaprow, Marta Jackson Gallery, New York, 1961
il retro della galleria viene invaso in maniera casuale da vecchi gommoni. Il pubblico, interagendovi, ne modifica continuamente la disposizione
Un altro artista attivo già negli anni ’60 e che ha fatto dell’inclusione e della partecipazione del pubblico alla realizzazione dell’opera uno dei leitmotiv della sua ricerca, è l’artista tedesco Franz Walther vincitore del Leone d’Oro alla Biennale d’Arte di Venezia del 2017. Al pubblico viene richiesto di attivare, in modi prestabiliti, forme di tessuto e di diventare esso stesso parte e coautore dell’opera (foto 7-11).

7 for two Franz Walther, 1967

8 Franz Walther, 1967

9 Gathering Franz Walther, 1966

10 The body added Franz Walther, 1983

11 Franz Walther, Bonn 2020
Perché queste forme di arte partecipativa inaugurate negli anni ’60 avranno una ridefinizione e sviluppo circa trent’anni dopo, durante gli anni ’90? Si può ipotizzare per una reazione al trionfo del banale e del kitsch così come dell’edonismo e dell’individualismo che aveva caratterizzato gli anni ’80 e che non risparmiò neanche il cosiddetto “ritorno all’ordine” cavalcato dalla pittura. La Transavanguardia, riabilitando la pittura dopo la sua scomparsa per quasi due decenni, proponeva la citazione arbitraria, il pastiche tipico del Postmoderno (foto 12-13). [8]
[8] per un’analisi critica al postmoderno vedi: Simona Maggiorelli. Attacco all’arte. La bellezza negata, L’asino d’oro edizioni, Roma, 2017

12 Michael Jackson and Bubbles Jeff Koons, 1988

13 Portatore d'acqua Sandro Chia, 1981
L’arte intorno alla fine del XX secolo intraprende un percorso che sembra portare al recupero, per usare un’espressione della critica d’arte Claire Bishop, di “una visione collettivista della società”, dopo il suo collasso determinato dalla caduta del comunismo (1989). Gli artisti arrivano a mettere in discussione il concetto di autorialità e a considerare oggetto artistico l’oggetto relazionale, come nel caso degli orti comunitari [9].
Un esempio di orto comunitario è The Cook, the Farmer, his Wife and their Neighbour (foto 14-16) [10 ], realizzato e sviluppato ad Amsterdam nel 2009 da un team composto dall’artista e architetto Marjetica Potrč e da Wilde Westen, un collettivo di giovani designers, architetti e produttori culturali, in collaborazione con il Stedelijk Museum. Ai visitatori del museo che chiedevano quale fosse l’opera d’arte veniva spiegato che nel progetto degli orti si attuava la trasformazione della scultura pubblica da oggetto/scultura a oggetto/relazionale e dello spazio da spazio/ pubblico a spazio/condiviso.



14-16 The Cook, the Farmer, his Wife and their Neighbour 2009, progetto orto comunitario, Amsterdam
Per Marjetica Potrč “in time of collaboration, the artist is a mediator and the role of art is to mediate” [11 ]. L’artista rinuncia alla realizzazione artistica in favore di un processo di mediazione e d’inclusione.
[9] Claire Bishop, Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nell'arte partecipativa Luca Sossella edizioni, 2015, p.15
[10] Marjetica Potrč. Un oggetto relazionale in uno spazio condiviso in “Paesaggio con figura”
Umberto Allemandi &C, 2001, pp. 216-223.
[11] Marjetica Potrč. The Cook, the Farmer, his Wife and their Neighbour in “Hands On Urbanism”, Vienna, March 2012, pdf, p.12
https://www.potrc.org/texts/Potrc_Hands-On_Urbanism_Vienna_March2012_ENGL_10s_d_.pdf
Quale sono le criticità che si possono rilevare in queste pratiche artistiche? La prima potrebbe essere la rinuncia alla rappresentazione, attraverso forme, immagini, colori, del mondo irrazionale degli affetti. L’artista rischia di annullarsi in attività, modalità comportamentali di tipo cosciente che potrebbero o dovrebbero essere svolte da mediatori sociali e culturali.
L’altra criticità, all’opposto, è l’aura di sacralità di cui si ammanta l’artista. A questo proposito è particolarmente significativo quello che scrive Ivan Bargna, professore di Antropologia Estetica all’Università Milano-Bicocca, sul lavoro svolto dagli artisti in contesti comunitari. Spesso si tratta “di gesti apparentemente banali e ordinari (coltivare un orto, cucinare, mangiare e conversare insieme) oppure camminare insieme, in cui l’arte diviene “quasi” indistinguibile dalla vita; è però proprio il capitale simbolico (l’aura, l’alone di sacralità) di cui l’artista ancora può godere a mutare il significato di quei gesti, a intensificarne il senso, a conferire loro valore (…)”[12].
Questa sorta di sacralità, non senza una connotazione di onnipotenza, è presente anche in molte opere a carattere partecipativo come si evince dalle parole dell’artista Franz Walther rivolte allo spettatore: puoi attivare la mia opera, “if you do, it will turn all of you into an artwork”[13]. L’opera ha quindi il potere di trasformare in un’opera d’arte lo spettatore stesso al quale è concesso interagirvi sottostando a indicazioni precise da parte dell’artista.
[12] Ivan Bargna. Nessuna partecipazione a distanza. Quel che l’arte pubblica e partecipativa mettono in gioco in “Africa e Mediterraneo”
21(76), 2012, p. 4 https://www.calameo.com/read/0012792543581cec6a018
[13] https://news.artnet.com/art-world/venice-biennale-golden-lion-959171
Anche nell’opera di arte partecipativa dell’artista giapponese Ei Arakawa alla Tate Modern a Londra, 2021, i visitatori possono disegnare liberamente su dei banners e sul pavimento della Turbine Hall grazie “all’invito” dell’artista enunciato nel titolo stesso della sua installazione: Mega Please Draw Freely (foto 17).

17 Mega Please Draw Freely Ei Arakawa, 2021, Tate Modern, Londra
Esplicita e’ la volontà, anche da parte di Arakawa, di attivare il pubblico ma si tratta veramente di un’opera di arte partecipativa o partecipata?
Come può innescarsi un processo creativo all’interno di una pratica artistica tra più persone così che possa essere realizzata “l’’immagine” di una fantasia collettiva? Difficile stabilirlo ma credo sia indispensabile, oltre a un’intenzionalità e delle attitudini specifiche, il determinarsi di un’interazione tra i partecipanti che vada al di là della coscienza.
Nel progetto dell’opera partecipativa e di rigenerazione urbana Quotidiano per il Quotidiano di Clarissa Baldassarri, la partecipazione del pubblico e’ invece casuale e non intenzionale (foto 18-19).


18-19 Quotidiano per il Quotidiano Clarissa Baldassarri, 2024, Siena, progetto Spazio Instabile
In un monitor dentro un’edicola abbandonata di un quartiere periferico di Siena, vengono registrati i movimenti delle persone che si trovano nelle vicinanze. Attraverso l’intervento di un software di intelligenza artificiale, le immagini vengono trasformate in testo che verrà poi pubblicato e distribuito nei negozi circostanti. L’edicola recupera così la sua funzione informativa, ritorna a essere un luogo di riferimento del quartiere e viene rigenerata.
L’artivismo è entrato con forza anche nell’ultima edizione di Documenta, la più prestigiosa manifestazione artistica a livello mondiale che si svolge a Kassel ogni cinque anni. Il titolo di Documenta 15, tenutasi nel 2022, è Lumbung, in indonesiano il granaio del riso, in cui il raccolto, un bene comune, viene gestito da e per tutta la comunità (foto 20-21).

20 lumbung Kios Documenta 15, 2022, foto Marco Enrico https://www.artribune.com/dal-mondo/2022/10/opinione-documenta-15/

21 The Black Archive, Asia Art Archive Documenta 15, Fridericianum, Kassel, 2022 foto Frank Sperling
https://www.artribune.com/dal-mondo/2022/10/opinione-documenta-15/
Documenta 15 si è caratterizzata per la totale messa in discussione della produzione artistica di stampo occidentale, considerata capitalista e colonialista, e del sistema dell’arte neoliberista riproponendo quelli che già erano stati i cardini di un nuovo modo di pensare l’arte, non più separata dalla vita, degli anni ‘60 e poi degli anni ‘90. Sono stati messi in discussione anche i ruoli dell’artista, del pubblico e delle istituzioni, i significati delle mostre e delle forme d’arte. Per il pubblico numerose sessioni di cucina, workshop, discussioni, lezioni di musica, panel politici che si sono succeduti nei 100 giorni della manifestazione. Molte però le critiche… e cioè che l’artivismo ha quasi completamente cancellato la dimensione artistica, la presenza di opere d’arte.
Ritengo importante la critica al sistema dell’arte che troppo spesso condiziona la libertà e creatività degli artisti ma trovo pericolosa questa sorta di demonizzazione e oggettivizzazione a tutti i costi dell’opera d’arte. Andrebbe poi riformulato anche il rapporto tra l’oggetto artistico e lo spettatore troppo spesso tratteggiato come avido consumatore o come visitatore da “istruire” alla comprensione dell’opera. Lo spettatore lo dobbiamo pensare come soggetto attivo che interagisce con un’opera attraverso una sua peculiare sensibilità indipendentemente da sollecitazioni, troppo spesso di carattere razionale-cosciente, da parte dell’artista.
L'opera d’arte, quando è tale, crea nell’altro uno stato di risonanza, suscita emozioni perché è espressione di una fantasia che nasce da quel sentire oltre la ragione che è comune a tutti gli uomini. Credo che la bellezza emerga da ciò e non da una ricerca meramente estetica. L'arte da sola non può trasformare il mondo ma può diventare un potente strumento di comunicazione e di condivisione di contenuti umani profondi e di cui nessuna società credo possa fare a meno.
Difficile, impossibile rimanere indifferenti verso ciò che contrassegna questo nuovo millennio: guerre, violazioni dei diritti fondamentali della persona, crisi umanitarie che possiamo definire epocali. Ancora più difficile credo lo sia per un artista, per quel suo peculiare sentire che lo pone in relazione con il mondo, con gli altri. Un sogno a Gaza, l’opera di video arte che ho girato nella Striscia di Gaza nel 2014-15, è stata tra le prime opere dove ho elaborato tematiche legate ai diritti umani. Le immagini di morte e distruzione che entravano nelle nostre case attraverso i mezzi d’informazione durante l’intervento militare israeliano Margine Protettivo a Gaza nel luglio-agosto 2014, determinarono in me l’esigenza di apportare il mio contributo di artista alla causa palestinese. In quest’occasione vorrei però condividere con voi alcune immagini di una delle mie installazioni sul tema della migrazione, Mura [14], la cui creazione fin dall’inizio volevo si traducesse in una vera e propria esperienza di arte partecipata (foto 22-25).
[14] https://www.francamarini.com/it/gallery/opere-2005-2018/opere-site-specific/476-mura



22-24 Mura Franca Marini, 2021, Monteriggioni (Siena), foto Franca Marini

25 Mura Franca Marini, 2021, Monteriggioni (Siena), foto Angela Bindi
Fui invitata a realizzarla nel 2021 a Monteriggioni (Siena) da un gruppo di mercato equosolidale con il contributo della sartoria Migrante Kirikuci, che mise a disposizione i suoi tessuti.
Avrei voluto che la collaborazione con i due sarti della sartoria e con il gruppo Equosud avesse coinvolto anche l’ideazione dell’opera mentre, per motivi soprattutto logistici, si limitò ad alcuni aspetti pratici.
L’installazione si sviluppava intorno ai tre tronchi e tra i rami di un grande ulivo a ridosso delle antiche mura del borgo medievale. Essa, scrivevo, “(…) si pone come elemento di vitalità e resistenza al muro che la sovrasta, muro inteso non solo come barriera fisica, ma anche come simbolo delle politiche di respingimento messe in atto dai paesi europei nei confronti del fenomeno migratorio (…)”. Ricordo la reazione di sorpresa di uno dei due sarti di Kirikuci di fronte all’opera compiuta. Essa gli ricordava il setting creato in Senegal per lo svolgimento di una cerimonia di esorcismo a scopo terapeutico per la cura delle malattie psichiche, il NDEUP, praticato dall’etnia Lebou, di cui fa parte sua madre, ma di cui io non ero assolutamente a conoscenza.
Tutta la comunità, mi spiegava, partecipa al rituale terapeutico assieme alla persona malata che così non viene marginalizzata. Nonostante la sua parziale partecipazione alla realizzazione dell’installazione, dalla nostra collaborazione era emersa un’opera la cui immagine era espressione della sua cultura d'origine ma anche rappresentazione di significati universali come quelli di inclusione e accettazione delle diversità.
I più noti artisti attivisti fanno parte di quel sistema dell’arte che l’artivismo degli esordi si proponeva di combattere. Come abbiamo visto, i più importanti musei e manifestazioni artistiche mondiali oggi ospitano e finanziano opere di arte partecipativa a carattere sociale. I due progetti di arte partecipativa e relazionale che seguono sono realizzati da uno tra gli artisti più influenti, l’artista danese Ólafur Elíasson.
- Green Light. An artistic workshop (foto 26-27) può essere ricordato come un significativo progetto d’inclusione. L’artista trasforma il Padiglione Centrale ai Giardini della Biennale d’Arte di Venezia del 2017 in una sorta di fabbrica con 80 rifugiati dediti alla realizzazione di lampadine verdi realizzate con materiale riciclato. Il progetto ha incluso attività di apprendimento condiviso, a cui hanno partecipato i migranti con la supervisione dell’artista, come workshop creativi, proiezioni, corsi di formazione professionale e di lingua.


26-27 Green Light Ólafur Elíasson, Biennale d’Arte di Venezia 2017, foto Damir Zizic https://olafureliasson.net/greenlight
- The collectivity project (foto 28-29) è stato realizzato nel 2005 per la terza Biennale di Arte Contemporanea di Tirana.
L’artista invita il pubblico a progettare un’immensa città immaginaria in costante formazione utilizzando oltre due tonnellate di mattoncini LEGO bianchi a disposizione di chiunque voglia partecipare. Il progetto è stato poi riproposto negli USA e in diverse capitali europee, viene da supporre con un notevole investimento economico.

28 The collectivity project Ólafur Elíasson, 2005, Biennale di Arte Contemporanea di Tirana, foto Ólafur Elíasson https://olafureliasson.net/artwork/the-collectivity-project-2005/

29 The collectivity project Ólafur Elíasson, 2005, Biennale di Arte Contemporanea di Tirana, foto Liz Ligon
https://olafureliasson.net/artwork/the-collectivity-project-2005/
Il titolo di questo progetto, The collectivity project, è emblematico, ma si tratta veramente di un progetto, e soprattutto, di un progetto collettivo? Può essere creativo un fare dettato principalmente da una sorta di spontaneismo?
Pongo le domande al pubblico, mi risponde l’architetto Edoardo Milesi con una decisa affermazione negativa. Dal pubblico ci sono altri interventi, tra cui quello del giornalista Emilio Guariglia che dà vita a un acceso dibattito sul senso e utilità delle pratiche proposte dall’arte contemporanea.
A dimostrazione di come la collaborazione tra gli artisti e la comunità possa talvolta dimostrarsi fruttuosa, la mia presentazione sarebbe continuata con una serie di progetti di Street Art (v. paragrafo sotto "La Street Art").
Dopo aver iniziato a proporne qualche esempio, capisco che è arrivato il momento di concludere la mia presentazione.
Due giorni dopo ci sarebbe stato l’atteso laboratorio sul progetto a Curitiba, Paraná (Brasile), che immaginavo avrebbe proposto altro rispetto a interventi di Street Art.
Del laboratorio voglio ricordare il mio turbamento durante il collegamento on-line con l’architetto Jean Velo, vicepresidente FAVEP [16], che ci descrive il piano di modernizzazione del centro storico di Curitiba secondo modalità progettuali atte ad attivare un preciso processo di gentrificazione dell’area. Poco dopo realizzo che il progetto proposto dall’architetto Milesi è rivolto proprio a coloro che la trasformazione del quartiere vorrebbe allontanare e cioè le frange più deboli, in primis i senza tetto e prevede il loro coinvolgimento alla realizzazione di uno spazio urbano in collaborazione con artisti. Un progetto, questo, che mi sorprende per la sua singolarità, provo a pensare cosa accomuna gli artisti e i senza tetto. Non appartengono forse entrambi per antonomasia a due categorie di outsiders della società? Forse sia gli artisti, che non possono fare a meno dell’immaginazione e della fantasia, che chi si rifiuta di vivere sotto un tetto, esprimono la necessità, profonda, di esistere e di abitare questo pianeta oltre la razionalità e le convenzioni sociali, rivendicando così un’originalità a cui l’espressività artistica può dare forma.
[16] Federazione delle Associazioni Venete dello Stato del Paraná
La Street Art
La Street Art, nata come arte di protesta – ricordo anche l’importanza dei Writers durante le Primavere Arabe – è sempre più diffusa nella riqualificazione urbana delle periferie, con interventi spesso finanziati da enti pubblici, a tal punto da essere gli artisti stessi accusati di favorire processi di gentrificazione.
A Palermo il sindaco ha addirittura stilato un elenco di writers accreditati che stanno intervenendo in molte aree della città tra cui anche nel quartiere di Danisinni, che ho avuto modo di visitare recentemente, un’area molto problematica con gravi criticità, povertà, indigenza, mancanza di servizi, che ovviamente non possono risolversi solo con interventi di street art (foto 30-31).


30-31 fattoria sociale, Danisinni, Palermo
La Street Art dubito possa da sola creare un luogo e quindi inclusione intesi nella loro accezione più profonda. Credo che, soprattutto in ambito urbano, sia indispensabile per gli artisti collaborare con architetti, urbanisti, antropologi.
I progetti di Street Art più di successo sembrano essere quelli nati con una progettualità a scala tridimensionale. In Messico villaggi interi sono stati strappati alla droga grazie a dei bei progetti di Graffiti Art, realizzati anche dagli stessi abitanti (foto 32-33).


32-33 Pachuca, Messico 2015
Questo intervento in un quartiere di Pachuca è considerato il più grande murales mai realizzato in Messico ed è nato grazie al collettivo di artisti German Crew
Favela Painting è il nome di una serie di community artworks a Rio de Janeiro ideati da due artisti olandesi, Jeroen Koolhaas e Dre Urhahn a partire dal 2005 nei quartieri Vila Cruzeiro, una delle favelas in Rio e successivamente in Santa Marta realizzati con la collaborazione degli abitanti. Il progetto si è poi esteso ad altri paesi come gli States, a Philadelphia, e Haiti.
A Rio oggi è un local self-run project supportato dalla United Painting Foundation di Amsterdam, un’istituzione internazionale il cui motto è community art for social change.

34 Favela Painting, Rio de Janeiro
Meritevole di attenzione è l’intervento realizzato nel 2008 a Vila Cruzeiro (foto 35-41) in questa sorta di "cascata" di cemento sotto alla quale scorreva un sistema di acque. Il progetto iniziale si era proposto di dipingere le acque di un fiume con carpe.





35-39 Rio Cruzeiro, Vila Cruzeiro, Rio de Janeiro, Brasil 2008 le varie fasi di realizzazione del primo intervento
Dopo circa 1 anno l’opera già presentava problemi di usura, di degrado.
Fu formato un gruppo di donne del quartiere alla tecnica del mosaico con cui negli anni 2018 al 2022 è stata sostituita l’opera.


40-41 mosaico, Rio Cruzeiro, Vila Cruzeiro, Rio de Janeiro, Brasil 2018-22
La ricerca di materiali più durevoli della pittura ha coinvolto anche il restauro delle abitazioni, in particolare della Rue Santa Helena. Viene ora utlizzato lo pigmented lime stucco and tiles -stucco di calce con pigmento e piastrelle- materiali comuni prodotti in loco (foto 42-43).


42-43 Rue Santa Helena, Vila Cruzeiro, Rio de Janeiro, Brasil 2008
I precedenti storici di questa nuova figura di artista. Le “azioni” futuriste e dadaiste agli inizi del secolo scorso sono gli antecedenti più noti dell’interventi degli artisti fuori dai contesti istituzionali dell’arte. La creazione di veri e propri nuovi linguaggi espressivi e quindi la rottura con le forme artistiche del passato farà parte del moto di rivolta che caratterizzò gli anni ‘60 e ’70. Attraverso happenings, performance e body art, ma anche video arte e installazioni, gli artisti determinano il coinvolgimento del pubblico e la riformulazione del significato stesso della creazione artistica.
Allan Kaprow con i suoi environments è considerato anche il pioniere dell’installazione, una forma d’arte che avrà un importante sviluppo soprattutto negli anni ’90 e che concepisce l’opera come il luogo dove si stabiliscono le relazioni con il pubblico (foto 6). [7]
[7] vedi: Franca Marini. L’estetica dell’arte contemporanea: dalla libera espressione all’arte sociale. Installazioni artistiche e interattività
relazione in occasione del ciclo di incontri "L’Estetica in Architettura", Summer School 2018, OCRA Montalcino, 23 Luglio 2018
https://www.francamarini.com/it/poetica-artistica-3/439-scuola-permanente-dell-abitare-1

6 Yard Allan Kaprow, Marta Jackson Gallery, New York, 1961
il retro della galleria viene invaso in maniera casuale da vecchi gommoni. Il pubblico, interagendovi, ne modifica continuamente la disposizione
Un altro artista attivo già negli anni ’60 e che ha fatto dell’inclusione e della partecipazione del pubblico alla realizzazione dell’opera uno dei leitmotiv della sua ricerca, è l’artista tedesco Franz Walther vincitore del Leone d’Oro alla Biennale d’Arte di Venezia del 2017. Al pubblico viene richiesto di attivare, in modi prestabiliti, forme di tessuto e di diventare esso stesso parte e coautore dell’opera (foto 7-11).

7 for two Franz Walther, 1967

8 Franz Walther, 1967

9 Gathering Franz Walther, 1966

10 The body added Franz Walther, 1983

11 Franz Walther, Bonn 2020
Perché queste forme di arte partecipativa inaugurate negli anni ’60 avranno una ridefinizione e sviluppo circa trent’anni dopo, durante gli anni ’90? Si può ipotizzare per una reazione al trionfo del banale e del kitsch così come dell’edonismo e dell’individualismo che aveva caratterizzato gli anni ’80 e che non risparmiò neanche il cosiddetto “ritorno all’ordine” cavalcato dalla pittura. La Transavanguardia, riabilitando la pittura dopo la sua scomparsa per quasi due decenni, proponeva la citazione arbitraria, il pastiche tipico del Postmoderno (foto 12-13). [8]
[8] per un’analisi critica al postmoderno vedi: Simona Maggiorelli. Attacco all’arte. La bellezza negata, L’asino d’oro edizioni, Roma, 2017

12 Michael Jackson and Bubbles Jeff Koons, 1988

13 Portatore d'acqua Sandro Chia, 1981
L’arte intorno alla fine del XX secolo intraprende un percorso che sembra portare al recupero, per usare un’espressione della critica d’arte Claire Bishop, di “una visione collettivista della società”, dopo il suo collasso determinato dalla caduta del comunismo (1989). Gli artisti arrivano a mettere in discussione il concetto di autorialità e a considerare oggetto artistico l’oggetto relazionale, come nel caso degli orti comunitari [9].
Un esempio di orto comunitario è The Cook, the Farmer, his Wife and their Neighbour (foto 14-16) [10 ], realizzato e sviluppato ad Amsterdam nel 2009 da un team composto dall’artista e architetto Marjetica Potrč e da Wilde Westen, un collettivo di giovani designers, architetti e produttori culturali, in collaborazione con il Stedelijk Museum. Ai visitatori del museo che chiedevano quale fosse l’opera d’arte veniva spiegato che nel progetto degli orti si attuava la trasformazione della scultura pubblica da oggetto/scultura a oggetto/relazionale e dello spazio da spazio/ pubblico a spazio/condiviso.



14-16 The Cook, the Farmer, his Wife and their Neighbour 2009, progetto orto comunitario, Amsterdam
Per Marjetica Potrč “in time of collaboration, the artist is a mediator and the role of art is to mediate” [11 ]. L’artista rinuncia alla realizzazione artistica in favore di un processo di mediazione e d’inclusione.
[9] Claire Bishop, Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nell'arte partecipativa Luca Sossella edizioni, 2015, p.15
[10] Marjetica Potrč. Un oggetto relazionale in uno spazio condiviso in “Paesaggio con figura”
Umberto Allemandi &C, 2001, pp. 216-223.
[11] Marjetica Potrč. The Cook, the Farmer, his Wife and their Neighbour in “Hands On Urbanism”, Vienna, March 2012, pdf, p.12
https://www.potrc.org/texts/Potrc_Hands-On_Urbanism_Vienna_March2012_ENGL_10s_d_.pdf
Quale sono le criticità che si possono rilevare in queste pratiche artistiche? La prima potrebbe essere la rinuncia alla rappresentazione, attraverso forme, immagini, colori, del mondo irrazionale degli affetti. L’artista rischia di annullarsi in attività, modalità comportamentali di tipo cosciente che potrebbero o dovrebbero essere svolte da mediatori sociali e culturali.
L’altra criticità, all’opposto, è l’aura di sacralità di cui si ammanta l’artista. A questo proposito è particolarmente significativo quello che scrive Ivan Bargna, professore di Antropologia Estetica all’Università Milano-Bicocca, sul lavoro svolto dagli artisti in contesti comunitari. Spesso si tratta “di gesti apparentemente banali e ordinari (coltivare un orto, cucinare, mangiare e conversare insieme) oppure camminare insieme, in cui l’arte diviene “quasi” indistinguibile dalla vita; è però proprio il capitale simbolico (l’aura, l’alone di sacralità) di cui l’artista ancora può godere a mutare il significato di quei gesti, a intensificarne il senso, a conferire loro valore (…)”[12].
Questa sorta di sacralità, non senza una connotazione di onnipotenza, è presente anche in molte opere a carattere partecipativo come si evince dalle parole dell’artista Franz Walther rivolte allo spettatore: puoi attivare la mia opera, “if you do, it will turn all of you into an artwork”[13]. L’opera ha quindi il potere di trasformare in un’opera d’arte lo spettatore stesso al quale è concesso interagirvi sottostando a indicazioni precise da parte dell’artista.
[12] Ivan Bargna. Nessuna partecipazione a distanza. Quel che l’arte pubblica e partecipativa mettono in gioco in “Africa e Mediterraneo”
21(76), 2012, p. 4 https://www.calameo.com/read/0012792543581cec6a018
[13] https://news.artnet.com/art-world/venice-biennale-golden-lion-959171
Anche nell’opera di arte partecipativa dell’artista giapponese Ei Arakawa alla Tate Modern a Londra, 2021, i visitatori possono disegnare liberamente su dei banners e sul pavimento della Turbine Hall grazie “all’invito” dell’artista enunciato nel titolo stesso della sua installazione: Mega Please Draw Freely (foto 17).

17 Mega Please Draw Freely Ei Arakawa, 2021, Tate Modern, Londra
Esplicita e’ la volontà, anche da parte di Arakawa, di attivare il pubblico ma si tratta veramente di un’opera di arte partecipativa o partecipata?
Come può innescarsi un processo creativo all’interno di una pratica artistica tra più persone così che possa essere realizzata “l’’immagine” di una fantasia collettiva? Difficile stabilirlo ma credo sia indispensabile, oltre a un’intenzionalità e delle attitudini specifiche, il determinarsi di un’interazione tra i partecipanti che vada al di là della coscienza.
Nel progetto dell’opera partecipativa e di rigenerazione urbana Quotidiano per il Quotidiano di Clarissa Baldassarri, la partecipazione del pubblico e’ invece casuale e non intenzionale (foto 18-19).


18-19 Quotidiano per il Quotidiano Clarissa Baldassarri, 2024, Siena, progetto Spazio Instabile
In un monitor dentro un’edicola abbandonata di un quartiere periferico di Siena, vengono registrati i movimenti delle persone che si trovano nelle vicinanze. Attraverso l’intervento di un software di intelligenza artificiale, le immagini vengono trasformate in testo che verrà poi pubblicato e distribuito nei negozi circostanti. L’edicola recupera così la sua funzione informativa, ritorna a essere un luogo di riferimento del quartiere e viene rigenerata.
L’artivismo è entrato con forza anche nell’ultima edizione di Documenta, la più prestigiosa manifestazione artistica a livello mondiale che si svolge a Kassel ogni cinque anni. Il titolo di Documenta 15, tenutasi nel 2022, è Lumbung, in indonesiano il granaio del riso, in cui il raccolto, un bene comune, viene gestito da e per tutta la comunità (foto 20-21).

20 lumbung Kios Documenta 15, 2022, foto Marco Enrico https://www.artribune.com/dal-mondo/2022/10/opinione-documenta-15/

21 The Black Archive, Asia Art Archive Documenta 15, Fridericianum, Kassel, 2022 foto Frank Sperling
https://www.artribune.com/dal-mondo/2022/10/opinione-documenta-15/
Documenta 15 si è caratterizzata per la totale messa in discussione della produzione artistica di stampo occidentale, considerata capitalista e colonialista, e del sistema dell’arte neoliberista riproponendo quelli che già erano stati i cardini di un nuovo modo di pensare l’arte, non più separata dalla vita, degli anni ‘60 e poi degli anni ‘90. Sono stati messi in discussione anche i ruoli dell’artista, del pubblico e delle istituzioni, i significati delle mostre e delle forme d’arte. Per il pubblico numerose sessioni di cucina, workshop, discussioni, lezioni di musica, panel politici che si sono succeduti nei 100 giorni della manifestazione. Molte però le critiche… e cioè che l’artivismo ha quasi completamente cancellato la dimensione artistica, la presenza di opere d’arte.
Ritengo importante la critica al sistema dell’arte che troppo spesso condiziona la libertà e creatività degli artisti ma trovo pericolosa questa sorta di demonizzazione e oggettivizzazione a tutti i costi dell’opera d’arte. Andrebbe poi riformulato anche il rapporto tra l’oggetto artistico e lo spettatore troppo spesso tratteggiato come avido consumatore o come visitatore da “istruire” alla comprensione dell’opera. Lo spettatore lo dobbiamo pensare come soggetto attivo che interagisce con un’opera attraverso una sua peculiare sensibilità indipendentemente da sollecitazioni, troppo spesso di carattere razionale-cosciente, da parte dell’artista.
L'opera d’arte, quando è tale, crea nell’altro uno stato di risonanza, suscita emozioni perché è espressione di una fantasia che nasce da quel sentire oltre la ragione che è comune a tutti gli uomini. Credo che la bellezza emerga da ciò e non da una ricerca meramente estetica. L'arte da sola non può trasformare il mondo ma può diventare un potente strumento di comunicazione e di condivisione di contenuti umani profondi e di cui nessuna società credo possa fare a meno.
Difficile, impossibile rimanere indifferenti verso ciò che contrassegna questo nuovo millennio: guerre, violazioni dei diritti fondamentali della persona, crisi umanitarie che possiamo definire epocali. Ancora più difficile credo lo sia per un artista, per quel suo peculiare sentire che lo pone in relazione con il mondo, con gli altri. Un sogno a Gaza, l’opera di video arte che ho girato nella Striscia di Gaza nel 2014-15, è stata tra le prime opere dove ho elaborato tematiche legate ai diritti umani. Le immagini di morte e distruzione che entravano nelle nostre case attraverso i mezzi d’informazione durante l’intervento militare israeliano Margine Protettivo a Gaza nel luglio-agosto 2014, determinarono in me l’esigenza di apportare il mio contributo di artista alla causa palestinese. In quest’occasione vorrei però condividere con voi alcune immagini di una delle mie installazioni sul tema della migrazione, Mura [14], la cui creazione fin dall’inizio volevo si traducesse in una vera e propria esperienza di arte partecipata (foto 22-25).
[14] https://www.francamarini.com/it/gallery/opere-2005-2018/opere-site-specific/476-mura



22-24 Mura Franca Marini, 2021, Monteriggioni (Siena), foto Franca Marini

25 Mura Franca Marini, 2021, Monteriggioni (Siena), foto Angela Bindi
Fui invitata a realizzarla nel 2021 a Monteriggioni (Siena) da un gruppo di mercato equosolidale con il contributo della sartoria Migrante Kirikuci, che mise a disposizione i suoi tessuti.
Avrei voluto che la collaborazione con i due sarti della sartoria e con il gruppo Equosud avesse coinvolto anche l’ideazione dell’opera mentre, per motivi soprattutto logistici, si limitò ad alcuni aspetti pratici.
L’installazione si sviluppava intorno ai tre tronchi e tra i rami di un grande ulivo a ridosso delle antiche mura del borgo medievale. Essa, scrivevo, “(…) si pone come elemento di vitalità e resistenza al muro che la sovrasta, muro inteso non solo come barriera fisica, ma anche come simbolo delle politiche di respingimento messe in atto dai paesi europei nei confronti del fenomeno migratorio (…)”. Ricordo la reazione di sorpresa di uno dei due sarti di Kirikuci di fronte all’opera compiuta. Essa gli ricordava il setting creato in Senegal per lo svolgimento di una cerimonia di esorcismo a scopo terapeutico per la cura delle malattie psichiche, il NDEUP, praticato dall’etnia Lebou, di cui fa parte sua madre, ma di cui io non ero assolutamente a conoscenza.
Tutta la comunità, mi spiegava, partecipa al rituale terapeutico assieme alla persona malata che così non viene marginalizzata. Nonostante la sua parziale partecipazione alla realizzazione dell’installazione, dalla nostra collaborazione era emersa un’opera la cui immagine era espressione della sua cultura d'origine ma anche rappresentazione di significati universali come quelli di inclusione e accettazione delle diversità.
I più noti artisti attivisti fanno parte di quel sistema dell’arte che l’artivismo degli esordi si proponeva di combattere. Come abbiamo visto, i più importanti musei e manifestazioni artistiche mondiali oggi ospitano e finanziano opere di arte partecipativa a carattere sociale. I due progetti di arte partecipativa e relazionale che seguono sono realizzati da uno tra gli artisti più influenti, l’artista danese Ólafur Elíasson.
- Green Light. An artistic workshop (foto 26-27) può essere ricordato come un significativo progetto d’inclusione. L’artista trasforma il Padiglione Centrale ai Giardini della Biennale d’Arte di Venezia del 2017 in una sorta di fabbrica con 80 rifugiati dediti alla realizzazione di lampadine verdi realizzate con materiale riciclato. Il progetto ha incluso attività di apprendimento condiviso, a cui hanno partecipato i migranti con la supervisione dell’artista, come workshop creativi, proiezioni, corsi di formazione professionale e di lingua.


26-27 Green Light Ólafur Elíasson, Biennale d’Arte di Venezia 2017, foto Damir Zizic https://olafureliasson.net/greenlight
- The collectivity project (foto 28-29) è stato realizzato nel 2005 per la terza Biennale di Arte Contemporanea di Tirana.
L’artista invita il pubblico a progettare un’immensa città immaginaria in costante formazione utilizzando oltre due tonnellate di mattoncini LEGO bianchi a disposizione di chiunque voglia partecipare. Il progetto è stato poi riproposto negli USA e in diverse capitali europee, viene da supporre con un notevole investimento economico.

28 The collectivity project Ólafur Elíasson, 2005, Biennale di Arte Contemporanea di Tirana, foto Ólafur Elíasson https://olafureliasson.net/artwork/the-collectivity-project-2005/

29 The collectivity project Ólafur Elíasson, 2005, Biennale di Arte Contemporanea di Tirana, foto Liz Ligon
https://olafureliasson.net/artwork/the-collectivity-project-2005/
Il titolo di questo progetto, The collectivity project, è emblematico, ma si tratta veramente di un progetto, e soprattutto, di un progetto collettivo? Può essere creativo un fare dettato principalmente da una sorta di spontaneismo?
Pongo le domande al pubblico, mi risponde l’architetto Edoardo Milesi con una decisa affermazione negativa. Dal pubblico ci sono altri interventi, tra cui quello del giornalista Emilio Guariglia che dà vita a un acceso dibattito sul senso e utilità delle pratiche proposte dall’arte contemporanea.
A dimostrazione di come la collaborazione tra gli artisti e la comunità possa talvolta dimostrarsi fruttuosa, la mia presentazione sarebbe continuata con una serie di progetti di Street Art (v. paragrafo sotto "La Street Art").
Dopo aver iniziato a proporne qualche esempio, capisco che è arrivato il momento di concludere la mia presentazione.
Due giorni dopo ci sarebbe stato l’atteso laboratorio sul progetto a Curitiba, Paraná (Brasile), che immaginavo avrebbe proposto altro rispetto a interventi di Street Art.
Del laboratorio voglio ricordare il mio turbamento durante il collegamento on-line con l’architetto Jean Velo, vicepresidente FAVEP [16], che ci descrive il piano di modernizzazione del centro storico di Curitiba secondo modalità progettuali atte ad attivare un preciso processo di gentrificazione dell’area. Poco dopo realizzo che il progetto proposto dall’architetto Milesi è rivolto proprio a coloro che la trasformazione del quartiere vorrebbe allontanare e cioè le frange più deboli, in primis i senza tetto e prevede il loro coinvolgimento alla realizzazione di uno spazio urbano in collaborazione con artisti. Un progetto, questo, che mi sorprende per la sua singolarità, provo a pensare cosa accomuna gli artisti e i senza tetto. Non appartengono forse entrambi per antonomasia a due categorie di outsiders della società? Forse sia gli artisti, che non possono fare a meno dell’immaginazione e della fantasia, che chi si rifiuta di vivere sotto un tetto, esprimono la necessità, profonda, di esistere e di abitare questo pianeta oltre la razionalità e le convenzioni sociali, rivendicando così un’originalità a cui l’espressività artistica può dare forma.
[16] Federazione delle Associazioni Venete dello Stato del Paraná
La Street Art
La Street Art, nata come arte di protesta – ricordo anche l’importanza dei Writers durante le Primavere Arabe – è sempre più diffusa nella riqualificazione urbana delle periferie, con interventi spesso finanziati da enti pubblici, a tal punto da essere gli artisti stessi accusati di favorire processi di gentrificazione.
A Palermo il sindaco ha addirittura stilato un elenco di writers accreditati che stanno intervenendo in molte aree della città tra cui anche nel quartiere di Danisinni, che ho avuto modo di visitare recentemente, un’area molto problematica con gravi criticità, povertà, indigenza, mancanza di servizi, che ovviamente non possono risolversi solo con interventi di street art (foto 30-31).


30-31 fattoria sociale, Danisinni, Palermo
La Street Art dubito possa da sola creare un luogo e quindi inclusione intesi nella loro accezione più profonda. Credo che, soprattutto in ambito urbano, sia indispensabile per gli artisti collaborare con architetti, urbanisti, antropologi.
I progetti di Street Art più di successo sembrano essere quelli nati con una progettualità a scala tridimensionale. In Messico villaggi interi sono stati strappati alla droga grazie a dei bei progetti di Graffiti Art, realizzati anche dagli stessi abitanti (foto 32-33).


32-33 Pachuca, Messico 2015
Questo intervento in un quartiere di Pachuca è considerato il più grande murales mai realizzato in Messico ed è nato grazie al collettivo di artisti German Crew
Favela Painting è il nome di una serie di community artworks a Rio de Janeiro ideati da due artisti olandesi, Jeroen Koolhaas e Dre Urhahn a partire dal 2005 nei quartieri Vila Cruzeiro, una delle favelas in Rio e successivamente in Santa Marta realizzati con la collaborazione degli abitanti. Il progetto si è poi esteso ad altri paesi come gli States, a Philadelphia, e Haiti.
A Rio oggi è un local self-run project supportato dalla United Painting Foundation di Amsterdam, un’istituzione internazionale il cui motto è community art for social change.

34 Favela Painting, Rio de Janeiro
Meritevole di attenzione è l’intervento realizzato nel 2008 a Vila Cruzeiro (foto 35-41) in questa sorta di "cascata" di cemento sotto alla quale scorreva un sistema di acque. Il progetto iniziale si era proposto di dipingere le acque di un fiume con carpe.





35-39 Rio Cruzeiro, Vila Cruzeiro, Rio de Janeiro, Brasil 2008 le varie fasi di realizzazione del primo intervento
Dopo circa 1 anno l’opera già presentava problemi di usura, di degrado.
Fu formato un gruppo di donne del quartiere alla tecnica del mosaico con cui negli anni 2018 al 2022 è stata sostituita l’opera.


40-41 mosaico, Rio Cruzeiro, Vila Cruzeiro, Rio de Janeiro, Brasil 2018-22
La ricerca di materiali più durevoli della pittura ha coinvolto anche il restauro delle abitazioni, in particolare della Rue Santa Helena. Viene ora utlizzato lo pigmented lime stucco and tiles -stucco di calce con pigmento e piastrelle- materiali comuni prodotti in loco (foto 42-43).


42-43 Rue Santa Helena, Vila Cruzeiro, Rio de Janeiro, Brasil 2008