attacco all'arte. La bellezza negata


presentation of the book “Attacco all’arte. La bellezza negata” by Simona Maggiorelli   see live event recording
June 24 2017 Libreria Mondadori, Siena, Via Montanini 112,  5,30pm

speakers:
Simona Maggiorelli, journalist and author of the book
Isa Giovanna Ciampelletti, architect
Francesco Fargnoli, psychiatrist and psychotherapist,
Franca Marini, artist

text by Franca Marini:
Attacco all’arte è un libro importante, innanzitutto per la grande professionalità e cioè per il metodo ed il rigore con cui viene sviluppata ed articolata la denuncia della negazione dei significati più profondi delle immagini dell’arte. Non c’è affermazione, tesi in questo libro che non sia suffragata da testimonianze, documenti, interviste e, mi riferisco in particolare all’arte contemporanea, da un’attenta e sistematica analisi dei contenuti. Analisi condotta attraverso una complessa ricostruzione storica che abbraccia anche la filosofia e la psicoanalisi ma anche attraverso la personale ricerca dell’autrice sui significati delle immagini che fa riferimento ad un impianto teorico, quello della Teoria della Nascita dello psichiatra Massimo Fagioli. Elemento determinante, come è già emerso nelle precedenti presentazioni, e che fa sì che Attacco all’Arte, e questo è motivo di vera originalità, non si esaurisca nella denuncia ma proponga anche un superamento di quel World Art drogato dalla finanziarizzazione e dalle leggi del mercato. Il libro si conclude con un’intervista al grande psichiatra che si è cimentato lui stesso con una originale ricerca artistica riconosciuta a livello internazionale e che con le sue scoperte in campo psichiatrico ha rivoluzionato anche il significato e la comprensione dei processi artistici. 
Credo e mi auguro che la pubblicazione di Attacco all’Arte, per la radicalità con cui viene smascherato il main stream dell’arte contemporanea, possa rappresentare un punto di non ritorno e costituire l’inizio di un dibattito e di un confronto che possono aprirci a nuovi orizzonti.

Partendo da esperienze personali e dall’esigenza di capire meglio, ho cercato di tratteggiare una ricerca su una tendenza, diffusissima, che vede l’artista coinvolto in tematiche di ordine sociale - basta pensare alla vasta produzione artistica sul tema della migrazione degli ultimi anni e che sembra non essere completamente assimilabile al World Art, brillantemente analizzato in Attacco all’Arte, analisi a cui farò frequente riferimento durante la mia esposizione.
Gli artisti, anche grazie al volere di enti pubblici, sempre più spesso si trovano al centro di progetti o pratiche comunitarie, collaborazioni creative in cantieri dei saperi condivisi che fanno capo ad un movimento non solo culturale ma anche filosofico ed economico che mira alla creazione di nuove forme di coesione sociale legate alla sostenibilità dello sviluppo e alla qualità della vita. Secondo la filosofia della condivisione, di cui il filosofo ed attivista Raj Patel è il maggiore esponente, al neoliberismo andrebbe sostituita una politica ed una economia spiritualmente impostate per mezzo della condivisione, della giustizia e della libertà. Ray Patel sostiene che “gli essere umani non sono tagliati per il ruolo di homo oeconomicus (…)” e che “i recenti esperimenti nel campo delle neuroscienze e della primatologia suggeriscono che non siamo calibrati per comportarci sempre in maniera totalmente egoistica” (1).

Senza entrare nello specifico di queste affermazioni, quello che vorrei sottolineare è che, a onta della recente grave crisi economica mondiale, si stanno formando a livello globale delle reti di resistenza che mirano a generare un cambiamento, non solo nelle strategie di mercato o a livello economico, ma anche nei rapporti tra le persone e che hanno determinato anche una sorta di attivismo artistico, in molti settori del sociale, tra cui quello che riguarda la rigenerazione urbana anche nell’accezione di opposizione alla gentrificazione di quartieri popolari.
Si sono create delle reti internazionali che si occupano della ri-urbanizzazione delle periferie reinventando l’utilizzo di edifici dismessi, aree sottoutilizzate, quartieri degradati (2). E’ in questi ambiti che si sono sviluppati progetti di orti urbani e periurbani di proprietà comunale intesi come significativi spazi di coesione e che hanno permesso la ricostruzione di reti sociali cittadine ed il rilancio di economie locali (interessanti esperienze in questo senso esistono anche a Siena, con il contributo di artisti). Frequente la presenza degli artisti anche in progetti finalizzati alla rieducazione del detenuto all’interno delle strutture penitenziarie. Ha preso l’avvio lo scorso maggio un progetto guidato dal noto critico e curatore Achille Bonito Oliva nelle carceri di Taranto: L’altra città. Un percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana che ha visto la trasformazione delle celle in opere d’arte da parte delle detenute stesse con la guida di un artista. 

L’intervento degli artisti fuori dai contesti istituzionali come gallerie, centri d’arte o musei, ha degli antecedenti nelle “serate futuriste” e nelle provocazioni dadaiste, ma soprattutto, nello svilupparsi negli anni ’60 e ’70 di nuovi linguaggi espressivi come happenings, performance and body art mirati alla creazione di situazioni ed azioni attraverso cui gli artisti, invece di rappresentare la realtà, si erano proposti di modificarla, dall’altra nella tradizione delle residenze d’artista di marca statunitense nate all’inizio del secolo scorso e che con l’era della globalizzazione stanno avendo una diffusione capillare in tutti e 5 i continenti. Esse cominciarono a connotarsi di valenza politica già negli anni ’60 quando creare in un luogo appartato e recluso era sinonimo di ribellione verso la società borghese e capitalistica. 
Oggi le residenze si svolgono per lo più all’interno di contesti a carattere comunitario dove agli artisti viene richiesto di trascorrere un periodo di lavoro creando progetti condivisi con i membri delle associazioni del quartiere e della comunità a cui sono rivolti. 

Si tratta di nuove forme di arte partecipativa che stanno assumendo le dimensioni di un fenomeno globale. Nate negli anni ‘60 e ‘70, dopo l’edonismo caratterizzante il decennio successivo, hanno avuto una forte ripresa agli inizi degli anni ’90, determinata, secondo la critica d’arte Claire Bishop, dalla caduta del comunismo (1989) e quindi dal “collasso di una visione collettivista della società”. Da qui “l’esigenza di ripensare l’arte collettivamente”(3). Altri studi hanno messo l’accento sull’elemento “locale” e cioè sull’importanza dell’identità comunitaria come elemento di difesa verso il processo di globalizzazione (4). Gli anni ‘90 hanno visto anche l’implementarsi dell’opera site specific ponendo l’accento non tanto sul luogo ma sulle relazioni che vi si determinano.

Può tutto ciò rappresentare un’alternativa, una reazione al World Art che, come ci dice Simona, è determinato esclusivamente dalle strategie della globalizzazione del mercato, dal prevalere dell’homo oeconomicus? Riferendosi a Fredric Jameson, scrive: “(…) al vecchio soggetto chiuso, dotato di centralità che esalta l’individualismo e dell’interiorità tipica del moderno, si sostituì il nuovo non soggetto dell’io frammentato e schizofrenico” (5). (….). Le opere d’arte, cito ancora da Attacco all’arte, “diventano giganteschi gadget ed elitarie vanitas, come il teschio tempestato di diamanti di Damien Hirst. Degradando il pubblico a guardone invidioso e a consumatore (…)” (6). Ma, al contrario, cosa si propone l’arte partecipativa con le sue varianti di interactive art, community based art, socially engaged art? In sintesi, la rimessa in discussione del rapporto tra artista e pubblico, del significato della creazione artistica e dell’autorialità. L’artista crea scenari in cui il pubblico e l’artista sono i medium e le loro relazioni sono il lavoro artistico. Nel caso degli orti comunitari, l’orto stesso è un oggetto artistico in quanto oggetto relazionale (7).
Gli interventi degli artisti consistono spesso, scrive Ivan Bargna, “di gesti apparentemente banali e ordinari (coltivare un orto, cucinare, mangiare e conversare insieme) in cui l’arte diviene “quasi” indistinguibile dalla vita; è però proprio il capitale simbolico (l’aura, l’alone di sacralità) di cui l’artista ancora può godere a mutare il significato di quei gesti, a intensificarne il senso, a conferire loro valore (…)” (8).
L’artista rischia così nuovamente di perdere il proprio specifico, cioè quello di rappresentare il mondo non cosciente degli affetti e della fantasia e di trasformarsi in una sorta di mediatore sociale o culturale annullando la propria identità in pratiche dal forte sapore razionale. Dall’altro, rischia di compensare o svolgere quello che la politica non riesce più a proporre, come delle concrete politiche sociali, cosicché, scrive ancora Bargna, “l’arte sembra quasi svolgere una funzione di supplenza della politica agendo da camera di compensazione, da prefigurazione di altri mondi possibili o da strumento di integrazione sociale (…)” (9).
Il prevalere di un linguaggio cosciente costituisce uno dei punti d’intersezione tra queste pratiche e le opere status symbol che circolano tra mostre, fiere e gallerie (10). D’altronde, se alcune forme di attivismo artistico arrivano a rifiutare in toto il sistema istituzionale dell’arte, tra i tanti interessanti esempi il TAMA, un museo senza muri nato in un’area dismessa in una periferia di Atene, Isola Art Center a Milano, un progetto no budget volutamente autofinanziato (11), in realtà sono pochi gli artisti che rinunciano alla visibilità offerta da spazi istituzionali, dove esporre la documentazione del lavoro svolto in comunità con foto o video oppure, come in alcuni progetti di Walk Art, gli oggetti raccolti durante le camminate. 

In generale però questo spostamento che si è determinato, diciamo verso il sociale, ha creato un ampliamento di contesti d’azione e di possibilità per gli artisti di entrare concretamente a far parte di un processo di trasformazione del reale. La Street Art, nata come arte di protesta – ricordo l’importanza dei Writers durante le Primavere Arabe, sta diventando sempre più determinante nella riqualificazione urbana delle periferie. Montanari, autore della prefazione di questo libro, in un’intervista rilasciata ad Artribune a gennaio, ricorda di comunità, anche in Italia, che raccolgono soldi per commissionare opere ai writers. In Messico villaggi interi sono stati strappati alla droga grazie a dei bei progetti di Graffiti Art, realizzati insieme agli stessi abitanti, Favela Painting è il nome di una serie di community artworks a Rio de Janeiro. Metropoliz a Roma ha visto la riqualificazione di uno spazio industriale occupato da gruppi rom e migranti, non solo con eventi e performances ma anche con opere di scultura, graffiti, fotografia, video. 
Vorrei quindi ipotizzare che all’interno della nostra società si siano determinate le condizioni per il superamento di un assetto autoreferenziale dell’artista, dell’attività artistica intesa come libera espressione (12), non orientata verso gli altri, verso un pubblico. Fatto questo importante a cui però credo si possa rispondere anche con modalità diverse dall’arte partecipativa.

La tela bianca appoggiata sul cavalletto del pittore è una superficie definita, un’invenzione essa stessa nata per accogliere e racchiudere le immagini create dalla fantasia, diversa da una forma, oggetto tra gli oggetti che rischia di perdersi nello spazio. Ma devo ammettere, qui apro una breve parentesi biografica, che la mia ricerca artistica basata per moltissimi anni sull’attività pittorica, sul far emergere e dare immagine a mie situazioni interiori, che credo corrispondesse ad una sorta di necessità di espressione, ad un certo punto non ha più funzionato. Ho dovuto riconoscere a me stessa di trovarmi in una secca…. non ne sono uscita delineando strategie ma di certo la svolta è avvenuta quando, nell’ideazione della mia opera, è entrato in gioco un nuovo elemento e cioè il rapporto con lo spazio, con l’architettura intesa innanzitutto come il luogo “abitato” da coloro che avrebbero interagito con la mia opera, quel pubblico tanto aborrito dall’arte partecipativa o relazionale che si voglia che non considero affatto passivo ma che immagino anche intelligente, in grado di percepire se le immagini che propongo sono vere oppure no.
E’ intrinseca in ognuno di noi la capacità di risuonare, rispondere emotivamente alle immagini dell’arte, espressione di un irrazionale comune a tutti gli uomini. Peculiarità questa, che fa dell’arte elemento indispensabile e costitutivo alla realizzazione di una società in cui i rapporti tra le persone non si fondino su una cieca soddisfazione dei bisogni. 
L’intenzionalità, innanzitutto inconscia, di rivolgersi ad un altro fuori di sé, è inscindibile dalla capacità dell’artista, se è tale, di rappresentare i contenuti che emergono dal vivere collettivo e questo indipendentemente dalla proposizione cosciente di farlo rendendo forse superflua la definizione di sociale per l’arte.
La rappresentazione, poiché non è né narrazione né descrizione, ma elaborazione inconscia di un contenuto, di un vissuto, diventa prefigurazione, immagine di un oltre, di un superamento del reale.

Milioni di persone sono costrette a fuggire da guerre e condizioni di vita disumane. E’ la più grave crisi umanitaria dopo la seconda guerra mondiale. E’ impossibile che le immagini dei naufragi che quotidianamente entrano nelle nostre case non modifichino il nostro immaginario e sentire. 
L’arte a tema sociale, in particolare sul tema della migrazione, ha visto anche in Italia un grande coinvolgimento di artisti curatori istituzioni pubbliche e private, espressione di responsabilità civica e della volontà collettiva di elaborare questa tragedia epocale anche attraverso le immagini dell’arte. Il sospetto però è che ciò si stia velocemente trasformando in un trend a cui gli artisti passivamente si omologano – rischio essere tagliati fuori dal mainstream e che il tema sociale in alcuni casi funga da copertura all’assenza di contenuti a cui ha condotto un approccio prevalentemente razionale alla ricerca artistica per oltre mezzo secolo. Ricordo che anche Maurizio Cattelan ha realizzato opere d’arte partecipativa a sfondo sociale. Rimando al paragrafo Chi ha ucciso la ricerca per cercare di capire perché, tra tutte le declinazioni delle ricerche svolte dalle avanguardie del secolo scorso, proprio quella che privilegia l’idea, il concetto a scapito dell’immagine abbia avuto e continui ad avere una così pesante influenza su generazioni di artisti. 
Il tema della migrazione è anche quello della Triennale di Milano, tutt’ora in corso, La Terra Inquieta, così come del Padiglione Centrale ai Giardini dell’attuale Biennale di Venezia, con un perfetto esempio di arte partecipativa. L’artista Olafur Eliasson ha trasformato il padiglione in fabbrica con 80 rifugiati dediti alla realizzazione di lampadine verdi.
La reiterazione di alcuni temi, in primis quello della barca, barcone o relitto, fa pensare ad una difficoltà degli artisti, nella rappresentazione, di andare oltre la figura, anche a fronte di una tematica così emotivamente coinvolgente. Alla Biennale del 2015 l’artista brasiliano Vik Muniz realizzò un’installazione galleggiante, una barca realizzata in carta intitolata Lampedusa. 
Ai Wei Wei, il famoso artista cinese dissidente, artista socialmente impegnato per antonomasia, per la mostra conclusasi a Firenze a gennaio, aveva installato con geometrica perfezione 22 nuovi gommoni arancioni sulle due facciate di Palazzo Pitti. L’artista si fa commentatore sociale, colui che ha il compito di creare awareness e scuotere le coscienze con un intervento, mi dispiace affermare, deludente: realizzato in chiave seriale-pop-minimal, è freddo, paradossalmente inespressivo. Credo sia lecito chiedersi come sia possibile per un artista coniugare impegno sociale con quelli che lui stesso dichiara essere i suoi mentori, Duchamp e Warhol, che hanno negato ogni partecipazione emotiva dell’artista nelle sue realizzazioni. A proposito della Pop Art, rimando al paragrafo, Warhol e la trasfigurazione del banale straordinario per l’incisività con cui viene tratteggiato il personaggio Warhol e la sua Factory. 
Il discorso su Andy Warhol è saliente per l’appoggio incondizionato offertogli dagli intellettuali più radicali che, scrive Simona, “ne hanno fatto un’icona della sinistra e per questo inattaccabile, pena l’essere additati come reazionari, se si prova a dire che il suo antiumanesimo non è affatto progressista” (13).
Ma sappiamo che lo stesso discorso vale anche per l’altra grande icona della sinistra, Marcel Duchamp.
Afferma Ai Wei Wei “essere un artista è soprattutto una disposizione mentale, un modo di vedere le cose; non consiste tanto nel produrre qualcosa, non più” (14). 

Rinunciare alla realizzazione di un oggetto artistico, significa rinunciare alla creazione delle immagini e alla loro straordinaria potenza evocativa. Le pitture nelle pareti delle caverne hanno un valore artistico assoluto, indipendente dal periodo storico in cui esse furono realizzate, ma uno dei motivi della profonda attrazione e fascino che esercitano su di noi è il loro metterci in comunicazione con un mondo lontanissimo nel tempo ma percepito emotivamente come vicinissimo, per una sensibilità che in quelle immagini riconosciamo come nostra.
Rinunciare alla realizzazione di un oggetto artistico significa rinunciare a quel fare senza pensare durante il quale emergono in maniera inconsapevole, immagini, forme, espressione di un pensiero non cosciente. Si potrebbe dire che un’opera d’arte è tale quando contiene in sé un elemento di sorpresa, un nuovo che neanche chi lo ha realizzato poteva prima immaginare. 

Vorrei concludere con una bella immagine, l’Allegoria del Cattivo e Buon Governo, commissionata ad Ambrogio Lorenzetti nel 1337 dalla stessa comunità autrice, circa 30 anni prima, di quello statuto in lingua volgare citato nel 3°capitolo come esempio di orgoglio da parte dei cittadini per la bellezza della loro città. Ciclo pittorico rivoluzionario non solo per i contenuti – è considerato il primo della storia dell’arte a carattere civico e non religioso, ma anche per il linguaggio, modernissimo per la resa spaziale che non fa ricorso ad una costruzione prospettica-illusionistica.
La rappresentazione della vita nella città e nella campagna nell’Allegoria del Buon Governo non corrisponde ad un esercizio dal vero e la sua verosimiglianza con Siena non è di tipo naturalistico. 
Potremmo dire che l’artista, nel rappresentare una sua immagine interiore di città, ci restituisca un’immagine di città che è universale, in cui nell’armonia tra spazio interno e spazio esterno, tra pubblico e privato si realizza una bellezza che è immagine del singolo e di tutta una collettività. 

1 Raj Patel. Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, Feltrinelii, Milano 2010, p.36
2 v. https://www.kcity.it/rigenerazione-urbana-2/9 http://www.avoe.org/urban-renaissance.html
3 Claire Bishop, Inferni artificiali, Luca Sossella edizioni, 2015, p.15
4 Pelin Tan. Paesaggio con figura, Umberto Allemandi &C con Susa Culture Project, 2011, p. 95
5 Simona Maggiorelli. Attacco all’arte, L’asino d’oro edizioni, Roma, 2017, p.129
6 ibidem, p. 131
7 Marjetica Potrc˘. Paesaggio con figura, Umberto Allemandi &C con Susa Culture Project, 2011, p. 219
8 Ivan Bargna. Nessuna partecipazione senza distanza. Quel che l'arte pubblica e partecipativa mettono in gioco, in “Africa e Mediterraneo”, 21(76), 2012, pp. 2-5
http://www.fondazionefeltrinelli.it/wp-content/uploads/2014/10/Quel-che-larte-pubblica-e-partecipativa-mettono-in-gioco.pdf
9 ibidem
10 Gabi Scardi. Paesaggio con figura, Umberto Allemandi &C con Susa Culture Project, 2011, p. 35
11 Paesaggio con figura, Umberto Allemandi &C con Susa Culture Project, 2011, p. 202 / p. 227
10 Gabi Scardi. Paesaggio con figura, Umberto Allemandi &C con Susa Culture Project, 2011, p. 35
12 per questo tema v. M. Fagioli, Bologna 1980. Realtà umana dell’artista e opera d’arte, in “Il Sogno della Farfalla”, 4, 2001, pp 5-11
13 Simona Maggiorelli. Attacco all’arte, L’asino d’oro edizioni, Roma, 2017, p.122
14 http://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2017/01/mostra-ai-weiwei-palazzo-strozzi-firenze-2/